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giovedì 23 gennaio 2014

In Libia i separatisti giocano un petro-bluff con l’aiuto di un lobbista

16 gennaio 2014 - ore 21:30
Quanto può durare ancora lo stallo tra il governo e l’est? Bisogna chiederlo al’uomo da due milioni di dollari
Giovedì il viceministro della Libia per il Petrolio e il gas, Omar Shakmak, ha annunciato alla tv di stato che l’incasso arrivato dalla vendita del greggio per il 2013 è di 40 miliardi di dollari, invece dei previsti 50. Il 20 per cento in meno è dovuto al fatto che i terminal nell’est del paese sono bloccati da una milizia separatista che ha dichiarato l’indipendenza e vuole vendere il greggio da sola, senza più passare per il governo centrale. Dieci giorni fa il primo ministro, l’incerto Ali Zeidan, ha detto che la Libia impedirà questo traffico parallelo e non autorizzato in ogni modo, anche usando le armi contro le petroliere che provassero ad attraccare ai terminal ribelli (all’inizio di gennaio la marina libica ha costretto a fare marcia indietro una petroliera con bandiera maltese che navigava verso Es Sider).


Martedì il capo trentaduenne della milizia, Ibrahim Jadran, ha dato alla Cnn un’intervista di sfida in cui ha detto di avere a disposizione un esercito di 23 mila uomini e anche una sua marina militare. “Il primo ministro è stato rapito, non riesce nemmeno a difendere se stesso, come potrebbe proteggere qualcos’altro?”. L’intervista internazionale potrebbe essere un’idea di Ari Ben-Menashe, un lobbista israelo-canadese nato in Iran che dirige la Dickens&Madson, una compagnia che si occupa di pr e di gestire questo genere difficile di clienti. Il miliziano libico ha pagato il lobbista due milioni di dollari perché rompa l’isolamento internazionale della “Cirenaica indipendente” e attiri stati sponsor alla sua causa. Secondo il contratto firmato il 17 dicembre, il primo tentativo sarà a Washington, ma poi “si proverà a ottenere un riconoscimento politico dalla Federazione russa, per avere aiuti militari e addestramento da vari governi”. Nell’intervista al network americano c’è una strizzata d’occhio significativa: “Non permetteremo ai gruppi estremisti di fare base in Libia e al paese di trasformarsi in un altro Iraq, Siria o Afghanistan, vogliamo uno stato istituzionale, legge e ordine”. Un’intervista ben giocata, considerando che l’est della Libia è la parte del paese a più alta densità di jihadisti, che vanno e vengono dalle altre guerre arabe e che nel 2012 hanno ucciso l’ambasciatore americano Chris Stevens.

Secondo Arturo Varvelli, un ben informato analista dell’Ispi, il governo libico ha riserve di denaro sufficienti a resistere a questo scacco ancora per sei mesi, perché l’anno scorso non ha speso un terzo del budget, pari a circa venti miliardi di dollari – soprattutto per la sua incapacità di investire. Ma quello di Jadran con la Cnn – “ho un esercito” – potrebbe essere un bluff, considerando che ha da poco perso l’appoggio indispensabile del clan locale, i Maghariba, tornati leali al governo centrale di Tripoli a metà dicembre. “Assomiglia a una sparata in stile Bossi, quando evocava l’esistenza di milizie valligiane pronte a scendere in suo aiuto”.

Questo stallo è potenzialmente pericoloso perché se Tripoli non riuscirà a persuadere l’ambizioso Jadran, magari promettendogli una quota dei ricavi, potrebbero riaprirsi le ostilità, ma non preoccupa per ora Eni, il principale partner commerciale del paese. A metà dicembre l’ad, Paolo Scaroni, ha annunciato il ritorno della produzione della compagnia a livelli “abbastanza” vicini a quelli precedenti la crisi, e ha usato parole pacate: la Libia “è un paese che mostra segni di saggezza e moderazione. La ricostruzione che vorremmo richiederà tempo, ma Eni si muove su un terreno difficile che conosce bene”. Gli interessi della multinazionale italiana sono concentrati a ovest, in un’altra parte del territorio. Però ci sono anche necessità di rappresentanza, forse questa tranquillità è più attenta e vigile di quanto si voglia ammettere, perché a fine novembre Eni ha parlato di una nuova “strategia asiatica”, con investimenti in aree promettenti del sud-est.

Gli assassinii vanno verso ovest
Sabato un gruppo di uomini armati ha ucciso il viceministro dell’Industria, Hassan al Droui, a Sirte. Dopo la morte è stato trovato dell’esplosivo attaccato alla sua macchina: non ha funzionato e allora gli hanno sparato. Questo tipo di attacco è molto frequente, ma di solito avviene più a est, a Bengasi, e non a così alto livello. Droui fu una figura chiave del Consiglio nazionale di transizione durante la rivolta contro Muammar Gheddafi nel 2011, e adesso era un uomo di fiducia del pericolante primo ministro Zeidan e anche un alleato importante di Parigi e degli stati arabi del Golfo: assiduo frequentatore delle cene dell’ambasciatore francese Antoine Sivan e di altri ospiti stranieri, era un formidabile procacciatore di investitori.

© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Daniele Raineri – @DanieleRaineri

Fonte: http://www.ilfoglio.it/soloqui/21505#.Utkz8lGHoKs.twitter

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