Qui si parla di un posto chiamato Jugoslavia, regno in sfacelo che fu facilmente occupato dalle truppe dell’Asse, italiane e tedesche, nel 1941.
Un posto risorto dalle ceneri del tutto nuovo, rifondato dopo la
vittoria del fronte partigiano “rivoluzionario e patriottico” guidato da
Josip Broz detto Tito. Ma quei tre anni di guerra nei Balcani sono un groviglio di contraddizioni che un ottimo libro di Eric Gobetti, Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943) recentemente pubblicato da Laterza, sbroglia passando in rassegna le varie fasi dell’occupazione italiana, dei rapporti con i nazionalisti serbi (cetnici) e croati (ustascia), oltre che con gli stessi nazisti.
Una facile conquista (tedesca)
La guerra italiana in Jugoslavia è inizialmente una burletta. Nell’aprile del 1941 i nazisti occupano in pochi giorni Zagrabria e Belgrado. Solo cinque giorni dopo le truppe italiane si decidono a lasciare le posizioni difensive
dell’Albania
e occupano Mostar, Dubrovnik e Cetinje, in Montenegro e Dalmazia,
marciando a tappe forzate per non farsi precedere dai tedeschi. La campagna in Jugoslavia conta appena trenta caduti italiani.
Malgrado lo scarso impegno vanno agli italiani il Montenegro, la
Dalmazia, il Kosovo (annesso all’Albania) e la città di Lubiana. In Serbia i tedeschi instaurano un regime collaborazionista sullo stile di Vichy in Francia. In Croazia nasce uno stato indipendente, formalmente un regno legato per dinastia ai Savoia, guidato da Ante Pavelic.
Pavelic è una vecchia conoscenza dei fascisti i cui servizi segreti
operano in Jugoslavia fin dagli anni Trenta. Mussolini, convinto di
poter fare della Croazia uno stato-fantoccio, appoggia l’ascesa di
Pavelic e dei suoi ustascia ma si rivelerà
presto una scelta sbagliata. Nel 1941 il piano italiano sembra
compiersi: a sud una Grande Albania e a nord una Grande Croazia
proteggono la Dalmazia italiana. Presto però Pavelic mostra l’evidente
volontà di affrancarsi dal controllo italiano.
Tra Grande Croazia e Grande Serbia
Il nuovo stato croato ha con l’Italia contenziosi territoriali e, per prassi politica, preferisce il modello nazista: si distingue per la sequenza di orrori
compiuti verso le popolazioni serbe (500mila morti in quattro anni di
regime) e le minoranze rom (20mila morti) ed ebrea (25mila). Un massacro
che scuote gli italiani che si troveranno a proteggere serbi ed ebrei
in fuga. Le prime rivolte serbe nella regione di Knin sono una semplice
reazione di sopravvivenza ma presto i serbi si sollevano anche nel resto
del paese: i cetnici di Draza Mihailovic,
nazionalisti formalmente fedeli al governo in esilio a Londra, si
ribellano all’occupante tedesco. Il loro disegno, quello di una Grande
Serbia, è concorrente rispetto a quello dei partigiani comunisti guidati da Tito i quali, internazionalisti e rivoluzionari, combattono per una Jugoslavia socialista che vada oltre le divisioni etniche. Gli italiani, che non si distinguono per astuzia militare, non trovano di meglio che armare i cetnici contro i comunisti.
Alleati del nemico
In sostanza l’Italia sceglie un’alleanza (informale ma concreta) con i suoi nemici,
i cetnici, sostenuti da Londra ma armati da Roma per combattere nazisti
e comunisti, oltre che gli ustascia croati alleati italiani. I cetnici,
che speravano in una vittoria alleata, non avrebbero esistato a usare
le armi italiane contro gli italiani stessi se fosse mai avvenuto
l’atteso sbarco alleato nei Balcani. Le bande cetniche si comportano
come milizie paramilitari agli ordini italiani, pur
mantenendo ampia autonomia, e non sono da meno degli ustascia nel
compiere pulizie etniche. I comandi italiani, che con un certo razzismo lasciano “che si ammazzino tra loro“, tollera i crimini serbi in nome di una vendetta ritenuta legittima verso i croati.
La vittoria dei partigiani
Da questa matassa usciranno vincitori i comunisti di Tito che, nel corso della guerra civile, riescono a sbaragliare cetnici e ustascia diventando l’interlocutore privilegiato della Gran Bretagna. Vincono, come spiega Gobetti, perché hanno un motivo per combattere: l’ideologia, l’avvenire, la patria. Già, perché quella dei partigiani è una guerra “patriottica”
che raccoglie le simpatie della popolazione locale. Rivoluzione
sociale, jugoslavismo, resistanza all’invasore, motivano i partigiani
che sono in buona misura giovani, anzi giovanissimi: il 75% ha dai 19 ai
21 anni, e ci sono molte donne. E’ per una nuova Jugoslavia che
combattono, non per un passato medievale come invece i cetnici con la loro Grande Serbia.
La pochezza italiana
In tutto questo gli italiani fanno una pessima figura. Conquistatori claudicanti, occupanti da operetta, si fanno feroci quando scoppia la rivolta: razzie, villaggi incendiati, fucilazioni, torture, deportazioni, campi di concentramento. Una barbarie da guerra coloniale
che in nulla si attaglia all’immagine della “brava gente” propagandata
dalla successiva memorialistica. I soldati, come sempre male
equipaggiati, non sono motivati a combattere anzi ammirano la fierezza e la tenacia dei nemici serbi
sviluppando un senso di inferiorità che spesso si traduce in sconfitte o
fughe davanti al nemico. Il fascino del ribelle, la noia, la paura, le
pessime condizioni in cui si trovano a combattere, portano gli italiani a
una resa interiore in cui si condensa tutta la pochezza dell’imperialismo mussoliniano. Il fascismo, che doveva creare l’uomo nuovo, muore in Jugoslavia.
L’alpino valdostano Willen annota sul
suo diario: “La pagheremo sicuramente per quello che stiamo facendo. Non
possiamo rimanere impuniti”. Sbagliava. I crimini di guerra italiani non verranno perseguiti, e senza una “Norimberga italiana” è mancata una vera comprensione dell’occupazione italiana nei Balcani.
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