28/2/19.
E’ evidente che in Venezuela siamo alla fine di un lungo ciclo
politico, segnato fin qui dai governi di Chavez e Maduro. Il Venezuela
cerca una svolta, e merita di trovarla. Dobbiamo tutti chiederci cosa
dobbiamo fare, per assicurare una transizione pacifica, verso un nuovo
equilibrio che garantisca tutti ed eviti un immenso bagno di sangue. I
due blocchi sono lì, entrambi abbastanza forti da potersi giocare alla
pari la partita: o la guerra civile, o la conciliazione nazionale
costituzionale. Chi oggi vuole ignorare lo spettro di una guerra civile
con risvolti internazionali compie un azzardo politico irresponsabile:
tutti i precedenti ce lo dicono, in modo evidente. Più volte abbiamo
visto potenze esterne esasperare una crisi, introdursi nel nucleo cesaristico di un potere
statale, sgretolarlo e cercare di afferrarne i dividendi fra le
macerie. Ma quello che riescono a creare davvero è solo il caos, fatto
di infiniti compromessi coi “signori della guerra”. Noi non vogliamo
vedere delle milizie che scorrazzano tra le macerie di Caracas con
enormi mitragliatrici caricate sui cassoni dei pick-up come abbiamo
visto a Baghdad, a Tripoli o ad Aleppo. Non vogliamo una guerra in
Venezuela. Il modo migliore di evitarla è la non-interferenza, che è un
ottimo principio base delle Nazioni Unite.
A quanti qui a Roma pensano di aver già saputo dirimere le
controversie costituzionali a Caracas propongo una constatazione
semplice: noi non siamo la Corte Suprema del Venezuela. Siamo invece un
paese tenuto a tutelare al meglio i propri cittadini e a
rispettare la carta dell’Onu. Riconoscere Guaidò, come presidente già
ora pienamente in carica, può avere risvolti politici rilevanti: ne
capiamo le ragioni contingenti ma, in termini diplomatici, è un atto
impraticabile e incompatibile con gli obiettivi dell’Italia, non
riconosciuto né riconoscibile dall’Onu. Guidò non controlla i poteri
dello Stato venezuelano, non ha presa sull’amministrazione, non dirige i
ministeri, non ha in mano le forze dell’ordine, non ha strumenti per
garantire gli impegni internazionali. Il rischio di un riconoscimento
prematuro è quello di un vicolo cieco diplomatico, che annichilirebbe le
chance per il dialogo e la lascerebbe esposta la comunità italiana in
Venezuela a incertezze intollerabili.
Da questo aspetto non si scappa.
Nell’immediato, Guaidò può riuscire a esercitare davvero il potere
solo in tre modi, che comportano tutti un enorme incremento della
violenza: o un’insurrezione militare, o una rivolta popolare armata (che
si scontrerebbe con l’altro blocco politico e sociale, che è abbastanza
forte) oppure con un intervento straniero. E in effetti l’8 febbraio,
in una dichiarazione, Guaidò dice che non esclude la possibilità di
autorizzare (attenzione a questa parola: autorizzare) un intervento
militare statunitense per aiutare a rimuovere dal potere il presidente Maduro, naturalmente sotto l’eterno ombrello giustificativo di una crisi
umanitaria. Ecco perché sostenere le forzature istituzionali per il
“regime change” significa facilitare la guerra nelle case dei
venezuelani: c’è ancora qualcuno che può pensare che in Venezuela si
possano tenere libere elezioni
e ci sia una governabilità praticabile, in assenza di un accordo
politico fra i due blocchi? E senza il supporto delle organizzazioni
internazionali? Servono meccanismi di mediazione approvati dell’Onu, in
ossequio all’ordinamento internazionale, con l’obiettivo di una via pacifica e democratica alla crisi del Venezuela, come il faticoso tentativo in atto con il meccanismo di Montevideo.
In questi giorni ci sono state molte polemiche e distorsioni sulla
nostra posizione. Siamo ben lontani dal considerare Maduro un modello di
qualcosa. Ma una parte della stampa e della politica
ragiona così: se non ritieni auspicabile spalleggiare una forzatura
istituzionale, allora sei automaticamente un fan entusiasta del
presidente. Viceversa, noi non siamo tifosi di nessuno: riteniamo che,
in politica
estera, sia sbagliato fare il tifo e usare approcci ideologici. E’
molto più utile capire le ragioni del consenso e del dissenso, e capire
perché – a sostegno di un potere
che si vuole rimuovere con la logica della “debellatio” – si muovono
invece forze storiche molto solide, che hanno alleanze internazionali
resistenti. La base sociale del chavismo è stata creata negli anni di
punta dei prezzi elevati del petrolio. E’ un buon esercizio, leggere i
dati economici degli ultimi vent’anni nella scheda-paese del Venezuela
compilata dal Fondo Monetario Internazionale.
Ecco, i dati ufficiali non descrivono un paradiso, ma un fenomeno
politico notevole, radicato, che ha fondato ex novo uno Stato sociale
dentro una rete di relazioni internazionali in cui investivano Cina,
Russia e altri paesi. Uno Stato sociale oggi sfiancato dalle sue
contraddizioni, degli errori gestionali, da un centro di intermediazione
burocratica inadeguato e corrotto, dal calo del prezzo del petrolio e
delle sanzioni di Washington, che hanno inciso pesantemente negli ultimi
due anni. Si tratta tuttavia di un blocco di interessi ancora
consistente, che non sopporterebbe un revanscismo che volesse
smantellarlo totalmente, riportando il modello classico dell’America
Latina di trent’anni fa: quello di una borghesia esclusivamente
orientata al Nord America e indifferente alle disuguaglianze sociali.
Dal canto suo, l’opposizione ha solidissimi rapporti con il National
Endowment for Democracy, l’ente statunitense che spende ogni anno
milioni di dollari (e sono tutti i dati pubblici) per
sorreggere
il tessuto delle organizzazioni del blocco sociale alternativo
venezuelano. Insomma, tutte le grandi potenze sono portatrici di vasti
interessi economici e geopolitici, non riducibili alla sola questione –
pur ingombrante – del petrolio.
E c’è dell’altro: qualcosa di cui finora nel nostro Parlamento non si
è discusso, ma che merita l’attenzione di tutti. La recentissima fine
del trattato Inf sui missili nucleari a raggio intermedio può riaprire
una pericolosa corsa agli armamenti: le grandi potenze nucleari guardano
all’Europa
e ai Caraibi come possibile teatro di dislocazione dei nuovi missili.
Non possiamo trascurare questo scenario drammatico, in grado di ridurre a
pochi minuti il tempo delle decisioni che possono evitare la catastrofe
atomica. L’Europa
ha un interesse vitale a costruire un sistema di relazioni
internazionali che sia il più lontano possibile dalla “mezzanotte
nucleare”, di cui sarebbe la prima vittima. E per fare questo deve
ridurre le faglie che si stanno aprendo ormai su troppi fronti
interconnessi, incluso questo fronte tropicale. In Venezuela si tenga
conto dell’interesse di venezuelani a trovare una via di conciliazione
nazionale pacifica, indipendente, attenta alle interdipendenze mondiali e
al riconoscimento democratico di tutte le formazioni sociali e
politiche del paese. I due polmoni della democrazia del Venezuela devono respirare nello stesso petto.
(Pino Cabras, dichirazioni rilasciate nei giorni scorsi alla Camera dei Deputati sulla crisi del Venezuela, riprese su YouTube e sul blog “Megachip”. Parlamentare del Movimento 5 Stelle, Cabras è membro della Commissione Affari Esteri della Camera).
Preso da: http://www.libreidee.org/2019/02/cabras-bagno-di-sangue-a-caracas-se-tifiamo-per-guaido/
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