1. Da settimane media e politici giustificano l’intervento della Nato con la pur nobile intenzione di proteggere i civili dalla vendetta di Gheddafi. Ma dall’inizio delle ostilità, non poche voci hanno espresso dubbi e perplessità sulle notizie provenienti dal fronte. Smentendo molte verità finora date per acquisite.
Lucio Caracciolo, direttore della rivista Limes e non certo un complottista, parla in proposito di “collasso dell’informazione”, tante sono le distorsioni e le lacune che stanno alterando la nostra percezione degli eventi in corso[1].
La giornalista Marinella Correggia, in una succinta analisi sul sito di Famiglia Cristiana[2] segnala l’esistenza di una Fact Finding Commission (Commissione per l’accertamento dei fatti) fondata a Tripoli da una imprenditrice italiana, Tiziana Gamannossi, e da un attivista camerunese, il cui scopo è indagare sulla rispondenza dei fatti alle notizie diffuse dai media.
E le sorprese non mancano.
Lasciando da parte le ipotesi sulle reali motivazioni del conflitto[3], va evidenziato come i media hanno avuto gioco facile nel tratteggiare la situazione a tinte fosche. Non hanno esposto analisi, non hanno descritto fatti, luoghi e personaggi. Il più delle volte si sono limitati ad impiegare frasi forti e slogan intrisi di retorica, amplificando le pur terribili violenze che le milizie del Colonnello stavano compiendo nel Paese.
Innanzitutto, la storia dei bombardamenti sui manifestanti. L’annuncio fa inorridire il mondo. I politici nostrani la ripetono con enfasi. Il 23 febbraio le emittenti al-Jazeera e al-Arabiya, la cui presenza costante nei luoghi delle rivolte le ha rese agli occhi dei più come una colonna della primavera araba, parlano già di 10.000 morti e 55.000 feriti. La fonte è Sayed al-Shanuka, il quale riferisce da Parigi qualificandosi come membro libico della Corte penale internazionale[4]. In realtà la stessa Corte dichiara che il signor al-Shanuka non è membro non è in alcun modo legato ad essa, ma la smentita rimane pressoché ignorata dalla stampa internazionale[5].
A passare sotto silenzio è pure la notizia che i satelliti russi, che avevano monitorato la situazione su Tripoli fin dall’inizio della rivolta, non hanno rilevato alcun segno di distruzione[6]. La giornalista Irina Galushko, corrispondente di Russia Today, ha riferito che i supposti raid del 22 febbraio su Bengasi e Tripoli, ampiamente enfatizzati da BBC e al-Jazeera, non sono stati registrati dai servizi militari che esaminavano le immagini raccolte dai satelliti. Peraltro, non c’è alcun filmato o testimonianza dei presunti raid aerei sulla capitale.
A scanso di equivoci, è innegabile che Gheddafi abbia usato anche bombardamenti aerei nelle operazioni militari contro le milizie ribelli; ciò che si sottolinea è che non ci sono prove circa analoghi attacchi nei confronti dei civili manifestanti, che è diverso. Le uniche immagini fin qui mostrate sono state quelle relative alla presenza di fosse comuni in riva al mare, che in realtà si tratta di filmati di repertorio del cimitero (con fosse individuali) di Sidi Hamed e del cimitero di Tagura, dove periodicamente si provvede allo spostamento dei resti.
A mettere in dubbio i numerici catastrofici sulla repressione libica ci ha pensato anche il Prof. Jean-Paul Pougala, esperto di geopolitica e docente a Ginevra, il quale ha riportato che per ricoverare una moltitdine di 55.000 feriti non sarebbero bastati gli ospedali di tutta l’Africa, dove solo un decimo dei posti letto è riservato alle emergenze[7].
C’è poi la storia degli stupri di massa a Misurata, con annesso il tragicomico dettaglio del Viagra in dotazione alle truppe del Colonnello. Un’inchiesta di tre mesi condotta da Amnesty international non ha riscontrato alcuna prova di queste violenze e abusi dei diritti umani, aggiungendo altresì che in alcuni casi i ribelli di Bengasi avevano dichiarato il falso o manipolato prove. In tre mesi non è stato possibile trovare alcuna prova o una singola vittima di violenze sessuali, o un medico che ne fosse al corrente[8]. Gli stupri di massa commessi dalle forze del Colonnello, utilizzati per giustificare l’attacco Nato e l’incriminazione di Gheddafi davanti alla Corte Penale Internazionale, potrebbero (potrebbero) non essere mai avvenuti.
Quanto al Viagra, l’inviata di Amnesty Donatella Rovera scrive che la fonte erano i ribelli di Bengasi, che avevano mostrato ai giornalisti stranieri alcuni pacchetti di Viagra trovati su carri armati andati a fuoco, ma che i pacchetti stessi non mostravano bruciature.
Poi, le bombe a grappolo. Si tratta di ordigni espressamente vietati da una Convenzione internazionale. Quando sono stati trovati a Misurata il 15 aprile, il loro uso è stato subito imputato alle forze di Gheddafi, in quanto la Libia non ha mai firmato l’anzidetta Convenzione. Tanto che alla notizia il Segretario di Stato americano Hillary Clinton ha subito ribadito la necessità dei bombardamenti Nato per assicurare la protezione dei civili.
Ma la Convenzione che vieta gli armamenti a grappolo non l’hanno mai firmata neppure gli Usa, che considerano legittimo di tali armi in operazioni militari. Secondo le ricerche del gruppo Human Rights Investigation, le sottomunizioni mostrate a Misurata che testimonierebbero l’utilizzo di bombe a grappolo sarebbero da attribuire non all’esercito libico, bensì alla Nato[9], la quale ha ammesso di disporre di tali armamenti nei propri arsenali.
Vi infine uno dei primi discorsi di Gheddafi, il cui messaggio è stato manipolato e stravolto nella sua traduzione. La versione da noi riportata è: “Se il popolo non ama Gheddafi, deve morire”; il messaggio originale era: “Se il popolo non ama Gheddafi, Gheddafi deve morire”[10]. Nelle sue parole, il Colonnello intendeva rafforzare il consenso intorno a sé in Tripolitania, non minacciare la Cirenaica.
In definitiva, la distanza tra le affermazioni più ricorrenti sulla guerra in Libia e le verifiche sul campo si è dimostrata massima.
2. Bugie a parte, fin dalle prime battute l’informazione si è mostrata insufficiente anche solo nel rappresentare i fatti e i volti che caratterizzavano l’evolversi dello scenario libico.
A partire dalle manifestazioni di protesta di metà febbraio e dalla conseguente repressione, la guerra civile in Libia è stata analizzata sotto la lente della struttura tribale del Paese. La genesi delle violenze viene individuata nella rottura del patto tra Gheddafi e i capi tribù. Soprattutto i Warfalla, la più numerosa tribù libica con oltre un milione di abitanti, che per bocca dello sceicco Akram al-Warfalli aveva invitato il qa’id di Tripoli ad andarsene. Qui nasce il primo equivoco. Al-Warfalli è solo uno dei tanti capi dei clan in cui è suddivisa la tribù, e nemmeno uno dei più importanti. Bastava recarsi nella città d’origine della tribù, Bani Walid, per rendersi conto che il sostegno dei Warfalla al regime è tutt’altro che vacillante. Ma i media avevano creduto acriticamente allo sceicco, senza neppure domandarsi quale fosse il suo ruolo all’interno della gerarchia tribale.
Così come in pochi si sono domandati chi siano realmente i ribelli di Bengasi. Per i media sarebbero i “buoni” perché lottano contro il Colonnello. In realtà non sono altro che pezzi del suo stesso regime, passati dall’altra parte della barricata per convenienz a.
A cominciare da Mustafa Abd al-Jalil, segretario del Consiglio Nazionale di Transizione libico. Ex giudice, quando era a capo della Corte d’Appello di Bengasi fu lui a pronunciare per due volte la sentenza a morte nei confronti di cinque infermiere bulgare accusate di aver infetto 400 bambini con il virus Hiv, poi risultate innocenti[11]. Divenuto Ministro della Giustizia nel 2007, ha avuto per quattro anni in mano l’agenda riformatrice nel Paese senza apportare alcun cambiamento significativo. La riforma del codice penale richiesta da più parti non è mai stata neppure avviata. Jalil è stato anche messo sotto accusa da Amnesty International e da Human Rights Watch per i metodi di arresto, la mancanza di garanzie di difesa nei processi e i prolungati periodi di detenzione. Il suo passaggio dalla parte dei ribelli è repentino: nel mese di febbraio, Gheddafi lo manda a Bengasi per trattare il rilascio di alcuni prigionieri, ma lui cambia bandiera e accusa il qa’id per le eccessive violenze sui civili. Ben presto diventa un esponente di punta del CNT, nonché uno degli interlocutori privilegiati dell’Occidente.
Un altro esponente di primo piano del CNT è Abd al-Fattah Farag al-’Ubaydi, ex Ministro dell’Interno. Anche lui compartecipe nel mantenimento dell’”ordine” nel Paese a suon di arresti e misure repressive. Ancora, alcuni membri del Consiglio sono ex appartenenti al Lybian Islamic Fighters Group (Lifg), gruppo terroristico formato nel 1995 che negli anni ha avuto rapporti anche con al-Qa’ida. Alcuni dei suoi miliziani hanno operato (e operano) in Iraq e Afghanistan. È ben noto che nei mesi seguenti all’invasione americana in Mesopotamia, la Cirenaica, in tutto il mondo arabo, fu la regione da cui partì per l’Iraq il maggior numero di combattenti jihadisti in rapporto alla popolazione.
Sorprende la facilità con cui tali personaggi siano divenuti i nuovi interlocutori della Libia verso il mondo[12].
3. Nelle fasi più concitate delle rivolte in Egitto e Tunisia prima, e della guerra in Libia poi, un ruolo di primo piano è stato occupato dalle emittenti satellitari al-Jazeera e al-Arabiya, tanto da diventare le fonti privilegiate per tutti coloro che desiderano approfondire la complessa realtà del mondo arabo.
Molte delle notizie lanciate da tali network si sono rivelate, in seconda battuta, false. Ed è incredibile come i grandi media internazionali abbiano ripreso buona parte di tali bufale, salvo poi omettere le doverose rettifiche. Oltre alle già citate storie dei 10.000 morti e delle fosse comuni, valga un caso su tutti: la caduta di Sirte.
La mattina del 25 marzo al-Jazeera annuncia che Sirte, la città natale di Gheddafi, è stata presa dai ribelli. La BBC diffonderà la notizia di lì a poco. Le immagini mostrano i pesanti bombardamenti a cui la zona è stata sottoposta da parte degli caccia anglo-francesi. La città è praticamente deserta e c’è ancora da capire cosa sia realmente successo. Ma la notizia viene ripresa dalle maggiori agenzie di stampa internazionali che sottolineano la portata simbolica della conquista.
In realtà né al-Jazeera e né la BBC hanno giornalisti sul posto. Sono presenti solo la Reuters e AFP, che esprimono dubbi[13[. Pochi giorni dopo si scoprirà che la verità è ben diversa: Sirte, in realtà, non è mai caduta[14]. Ma tutti ci avevano (ci avevamo) creduto.
La copertura full time 24 ore su 24, l’utilizzo dei social network come Facebook e Twitter, la continua citazione di testimoniane dirette avevano convinto tutti della genuinità del servizio delle due emittenti panarabe. In realtà ben poco di ciò che riportano è oggettivamente verificabile. Al-Jazeera ha anche attivato una chat aperta alle testimonianze dal posto e un blog, aggiornato minuto per minuto, sugli accadimenti in corso dal fronte[15] . Sorpresa: quasi tutti i partecipanti alla chat risiedono all’estero e chiunque metta in dubbio le testimonianze viene tacciato di essere una spia ed espulso. La maggior parte delle informazioni riportate proviene dal sito dei ribelli www.lybia17february.com, anch’esso basato all’estero e precisamente a Londra.
D’altronde, la difficoltà di fare informazione a Tripoli e nelle altre zone calde richiede la necessità di stabilire una rete di relazioni dalla quale attingere. Il problema è che in tal modo scompare il fatto e domina l’opinione. Ciascuno ha le sue fonti dirette e poco importa se i fatti possano essere provati o meno. Non potendo stare sul posto, ci si accontenta del “sentito dire”.
C’è una domanda che sorge a questo punto. Come mai al-Jazeera e al-Arabiya abbiano messo da parte ogni deontologia e imparzialità per fornire un’informazione partigiana, tendenziosa, se non addirittura falsa e manipolata?
Soprattutto la prima rappresenta uno strano paradosso.
A lungo al-Jazeera è stata considerata un network autorevole, libera, internazionale, professionale e credibile, libera nel guardare il mondo e nel raccontarlo. Negli anni Duemila è stata l’occhio più diretto sui controversi scenari di Iraq e Afghanistan, criticando apertamente l’operato delle forze americane. Nei primi mesi del 2011 è stata elevata a paladina dei popoli arabi per i suoi costanti reportage da Tunisi e da Piazza Tahrir. Ha seguito le rivoluzioni in Medio Oriente con grande empatia e attenzione, divenendo così il punto di riferimento dell’Occidente verso il mondo arabo e del mondo arabo verso l’Occidente.
Ma al Jazeera è gestita e finanziata dall’emiro del Qatar, il più autocratico dei monarchi del Golfo. Parla di libertà e democrazia, purché a debita distanza dal proprio Paese. Denuncia i soprusi dei satrapi mediorientali, senza poter spendere una parola sull’assenza di diritti civili a Doha.
Una contraddizione spiegata dalla volontà dello stesso emiro del Qatar di farne uno strumento di leverage politico per garantirsi maggiori opportunità nel mondo globalizzato. Non è un caso se la partecipazione del network a favore delle manifestazioni è stata contestuale alla decisione di Doha di assumere un ruolo più attivo nella gestione delle proteste. La convergenza tra l’agenda politica estera del Paese e l’enfasi data alle ragioni dei manifestanti palesa con tutta evidenza le sottese aspirazioni geopolitiche del piccolo Stato del Golfo.
Nel tentativo di rilanciare la propria credibilità, l’emittente ha recentemente trasmesso un servizio sui lavoratori stranieri in Qatar[16]. Ovviamente costellato di omissioni circa le reali condizioni degli operai.
In questo contesto, la Libia rappresenta una buona occasione per guadagnare consensi presso le cancellerie di Europa e Usa, accettando di sostenere la propaganda della “missione umanitaria” in difesa dei civili al punto da piegare gli avvenimenti agli interessi dei governi occidentali.
4. La guerra in Libia non si combatte solo a Misurata o lungo le strade che conducono a Tripoli. Anzi, il più delle volte qui non si combatte proprio. I ribelli hanno scarsi mezzi e nessun addestramento militare. Attendono che i raid della Nato facciano da apripista e poi avanzano. E quando le forze di Gheddafi riprendono vigore, arretrano. Quasi mai combattono davvero. Sparacchiano davanti alle telecamere, simulando operazioni posticce in cambio di quale dollaro, ma quasi mai combattono.
Tanto i media si spendono nel raccontare cosa accade sulle vie per Tripoli quanto invece si disinteressano dei combattimenti (veri) nelle zone montuose al confine con la Tunisia, dove vi è il fronte dimenticato della guerra [17]. “Dimenticato” nonostante la violenza quotidiana degli scontri.
Mark Doyle, corrispondente della BBC, è andato a Nalut, un’ora di macchina dal confine, per raccontare la guerra che non viene raccontata[18]. Gli edifici sventrati dai missili Grad lanciati dai lealisti, gli ospedali gravati da centinaia di feriti, il sospetto che il governo algerino fornisca armi al Colonnello, il sacrificio di tanti giovani (berberi) per mantenere il controllo delle città assediate. E quella frase pronunciata da uno di loro: “Ci affidiamo il nostro coraggio e alla Nato“.
Ma da noi non se ne parla abbastanza. Ci si concentra sui messaggi del Colonnello, sui bisticci diplomatici dei membri dell’Alleanza, sulle uscite dei politicanti di casa nostra, sugli “effetti collaterali” della guerra – i migranti di Lampedusa, arbitrariamente ripartiti in “profughi”, “clandestini” e “rifugiati” a seconda delle convenienze di turno[19]. Nella Libia dove le parole volano più in alto degli aerei e le bugie colpiscono più delle bombe, la prima vittima è l’informazione.
1http://temi.repubblica.it/limes/il-collasso-dellinformazione/22590
9http://humanrightsinvestigations.org/2011/05/25/the-cluster-bombing-of-misrata-the-case-against-the-usa/
12L’elenco degli Stati che riconoscono il Consiglio di Bengasi: http://it.wikipedia.org/wiki/Consiglio_nazionale_di_transizione#Relazioni_internazionali
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