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martedì 13 giugno 2017

La Libia nel tempo lungo della guerra globale

2 marzo 2016

di Antonio Pio Lancellotti
 
Uno degli effetti più tangibili delle trasformazioni che hanno investito la guerra globale nella contemporaneità è la sua alienazione da qualsiasi forma di dibattito pubblico e politico. Non è un caso che il tema della guerra sia completamente assente nella bagarre elettorale che precede le primarie per le presidenziali statunitensi. Questo è in parte dovuto al neo-isolazionismo che pervade il mondo politico statunitense e che, a partire dal secondo mandato di Obama, ha fatto emergere un nuovo concetto di “interesse nazionale”. Interesse basato sull’aumento della sicurezza interna, sulla protezione dei confini e, dato non secondario, sulla sottrazione del debito pubblico da possibili manovre speculative di potenze straniere, in particolare la Cina.
L’exit strategy obamaniana, in particolare dal Medio Oriente e dall’Asia centrale, che non sembra essere messa in discussione da nessuno dei nuovi candidati alla Casa Bianca, è però anche il frutto di una maturata consapevolezza che l’atto di forza nel gestire unilateralmente i conflitti del mondo globalizzato (il cosiddetto golpe nell’Impero tentato dall’amministrazione Bush dopo l’11 settembre 2001) è definitivamente fallito.
La fine dell’unilateralità della governance imperiale e le trasformazioni economiche e politiche che la crisi sistemica ha creato su scala globale hanno lasciato posto alla formazione di nuovi assetti di potere. Ne sono scaturiti fragili equilibri geo-politici tra potenze continentali emergenti i cui interessi, sul piano del controllo delle risorse, dei territori e dei flussi mercantili e finanziari, sono spesso contrapposti.
La guerra contemporanea, nella sua dimensione multipolare, espande i suoi fuochi ed il suo raggio d’azione, estende le proprie asimmetrie, ma soprattutto contribuisce ad amplificare le forme di controllo e dominio del capitale sulla vita. La guerra contemporanea è quella guerra all’umano che viene compiuta quotidianamente sulle migliaia di persone in marcia verso l’Europa: corpi mobili che esprimono (per ragioni politico-militari, economiche e climatiche) l’impossibilità della riproduzione della vita in alcune aree della Terra. La militarizzazione dei confini e l’uso coercitivo sempre più frequente della forza pubblica sui migranti si intrecciano in maniera inequivocabile con l’aumento della violenza poliziesca nella gestione delle vertenze sociali. Lo abbiamo visto in alcune lotte, localizzate principalmente nel Nord-Italia (vedi la vertenza Prix di Grisignano), che hanno interessato il mondo della grande distribuzione o nello sgombero forzato di case e palazzine occupate per rispondere all’emergenza abitativa. Se da un lato l’uso della coercizione è diretta espressione di una statualità residuale che esprime la propria sovranità solamente nell’egemonia della forza, dall’altro risponde direttamente alle esigenze di un rinnovato rapporto tra capitale e vita, in cui si è rotta qualsiasi forma di mediazione. In entrambi i casi emerge il carattere, molecolare e diffuso, dalla guerra come prassi normalizzata nella risoluzione dei conflitti.
La guerra contemporanea fa oggi i conti anche con l’esautoramento dall’alto dello Stato di diritto, inteso come forma storicamente stratificata di organizzazione della società, basata sull’affermazionede iure della democrazia nella gestione del potere e della partecipazione alla vita pubblica. Sebbene il concetto di democrazia sia troppo complesso da spiegare in poche righe ed abbia spesso rappresentato quella foglia di fico attraverso cui la sinistra istituzionale ha coperto la propria incapacità di leggere le contraddizioni sociali della post-modernità, i nuovi assetti post-democratici impongono una riflessione accurata sul modo in cui le élites riconvertono i propri dispositivi di dominio di classe e normazione giuridica. Le modifiche alla Costituzione francese, in seguito alla dichiarazione dello Stato di emergenza da parte di Hollande dopo gli attentati del 13 novembre 2015, rappresentano un vettore attraverso cui la guerra, interna ed esterna, egemonizza il politico, divenendo elemento costituente dei nuovi assetti di potere.
La guerra sta dunque ridefinendo il suo carattere globale e permanente, il suo continuo trasformarsi nel tempo lungo, e sta drammaticamente acquisendo sempre più il carattere dell’ineluttabilità. Per questa ragione la guerra viene sottratta al dibattito pubblico, diventa questione privata, a tratti oscura, delle élites e dei loro interessi. Viene unilateralmente dichiarata attraverso vertici ad hoc e pianificata mediante accordi governativi che non passano neppure al vaglio parlamentare.
La guerra in Libia da parte della coalizione internazionale, che di fatto è iniziata lo scorso 21 febbraio con l’attacco aereo statunitense a Sabrata (cittadina ad Ovest di Tripoli, da novembre aspramente contesa dall’alleanza Alba libica ed i miliziani dell’Isis), è l’espressione più evidente della completa assenza di un dibattito pubblico.
In Italia il governo Renzi, che ha recentemente stretto accordi con quello statunitense per l’utilizzo della base di Sigonella come luogo di partenza degli 11 droni che verranno utilizzati per colpire le 118 postazioni considerate “sensibili”, si è tenuto ben lontano dall’inserire la guerra in Libia come tema di discussione parlamentare. Nonostante questo il nostro Paese si è da tempo offerto di guidare la coalizione di guerra. Non a caso l’Italia ha ospitato sia la conferenza Onu sulla Libia, tenutasi a Roma lo scorso 13 dicembre, il cui piano di unificazione del Paese è fallito nei giorni scorsi, sia lo “small group” della coalizione, riunitosi alla Farnesina il 2 febbraio, in cui si sono definite le linee guida dell’attacco.
Rispetto all’utilizzo di Sigonella sia Renzi che Gentiloni continuano a nicchiare. Da un lato evocano a sé la piena titolarità della definizione delle regole d’ingaggio, dall’altro delegano completamente all’alleato americano la responsabilità dell’utilizzo di armi d’attacco, come gli AGM-114 Hellfire che partiranno dalla base italiana. E’ ancora tutta da chiarire, inoltre, la disponibilità concessa dal governo italiano di 5.000 soldati da utilizzare in un’eventuale missione di terra. Dopo il fallimento del piano Onu, che aveva come priorità quella di salvaguardare l’unità della Libia attraverso la creazione di un Governo nazionale che fosse espressione sia del parlamento di Tripoli che di quello di Tobruk, l’ipotesi di un intervento di terra sembra diventare, giorno dopo giorno, più concreta. Solo in questo modo verrebbe garantita, sul piano politico e militare, la tripartizione del Paese in tre aree di azione ed influenza (italiana, francese e britannica), che rappresenta l’essenza del piano B studiato dall’Onu già durante la conferenza del 13 dicembre.
Se da un lato l’unità della Libia non sembra più una priorità per nessuno, dall’altro le modalità attraverso cui la diplomazia internazionale sta cedendo il campo all’ipotesi di un conflitto armato di ampia intensità fanno riecheggiare i più beceri istinti coloniali dei Paesi occidentali nel territorio libico. L’Italia in particolare preme sull’acceleratore, nel tentativo di rincorrere francesi ed inglesi nella lotta per il controllo delle risorse petrolifere e naturali.
Il fallimento del piano Onu, e la conseguente guerra che ne scaturisce, vanno inoltre inquadrati nel più generale fallimento della politica internazionale in Libia, la cui incapacità di garantire una stabilità dopo la caduta e l’uccisione di Gheddafi è intrinsecamente connessa alla brutalità con cui sono state condotte le operazioni militari nel 2011, soprattutto da parte degli Stati Uniti. Il vuoto politico ed istituzionale creatosi nel Paese nord-africano dopo la guerra civile e la deposizione di Gheddafi ha avuto un duplice effetto.
Da un lato la barriera che frenava il transito dei migranti dal continente africano all’Europa si è spostata dalla sponda sud del Mediterraneo a quella nord. La Libia storicamente ha svolto un ruolo di regolazione e controllo dei flussi migratori, in particolare dopo gli accordi di Bengasi, siglati nel 2008 tra l’ex leader libico e l’allora presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi, che di fatto hanno reso la Libia la più grande prigione a cielo aperto per migranti di tutto il mondo. La fine del cosiddetto “tappo libico”, correlata con l’aumento delle politiche restrittive sull’immigrazione fatte in Europa, ed in particolare in Italia, ha consegnato migliaia di uomini e donne alla mercé della criminalità organizzata transnazionale, arricchitasi con il traffico di migranti, con le tragiche conseguenze a tutti note.
L’altro effetto che ha avuto la fine del regime è stata l’unificazione, e l’assunzione di un ruolo politico e militare sempre più influente ed organizzato, di quelle milizie jihadiste radicali che in precedenza erano state utilizzate dalle grandi corporation straniere per difendere i propri interessi. Come dice Antonio Mazzeo in una recente intervista rilasciata a Globalproject.info, la nascita dell’Isis in Libia ha avuto una gestazione del tutto simile a quella avvenuta in Siria ed Iraq ed è direttamente connessa con gli effetti della guerra e con il ruolo interno giocato dalle potenze straniere in questi Paesi.
Cinque anni dopo ci ritroviamo con una guerra sulle spalle, un Paese diviso e lacerato da conflitti interni ed un’altra guerra, probabilmente più disastrosa, ancora da cominciare. La sintesi perfetta di un fallimento annunciato ed, al tempo stesso, la perversione della guerra globale nella sua necessità di doversi continuamente riprodurre.

Fonte: Global Project 
 

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