di Antonio Pio Lancellotti
Uno
degli effetti più tangibili delle trasformazioni che hanno investito la
guerra globale nella contemporaneità è la sua alienazione da qualsiasi
forma di dibattito pubblico e politico. Non è un caso che il tema della
guerra sia completamente assente nella bagarre elettorale che precede le
primarie per le presidenziali statunitensi. Questo è in parte dovuto al
neo-isolazionismo che pervade il mondo politico statunitense e che, a
partire dal secondo mandato di Obama, ha fatto emergere un nuovo
concetto di “interesse nazionale”. Interesse basato sull’aumento della
sicurezza interna, sulla protezione dei confini e, dato non secondario,
sulla sottrazione del debito pubblico da possibili manovre speculative
di potenze straniere, in particolare la Cina.
L’exit strategy obamaniana, in particolare dal Medio Oriente e dall’Asia centrale, che non sembra essere messa in discussione da nessuno dei nuovi candidati alla Casa Bianca, è però anche il frutto di una maturata consapevolezza che l’atto di forza nel gestire unilateralmente i conflitti del mondo globalizzato (il cosiddetto golpe nell’Impero tentato dall’amministrazione Bush dopo l’11 settembre 2001) è definitivamente fallito.
L’exit strategy obamaniana, in particolare dal Medio Oriente e dall’Asia centrale, che non sembra essere messa in discussione da nessuno dei nuovi candidati alla Casa Bianca, è però anche il frutto di una maturata consapevolezza che l’atto di forza nel gestire unilateralmente i conflitti del mondo globalizzato (il cosiddetto golpe nell’Impero tentato dall’amministrazione Bush dopo l’11 settembre 2001) è definitivamente fallito.
La
fine dell’unilateralità della governance imperiale e le trasformazioni
economiche e politiche che la crisi sistemica ha creato su scala globale
hanno lasciato posto alla formazione di nuovi assetti di potere. Ne
sono scaturiti fragili equilibri geo-politici tra potenze continentali
emergenti i cui interessi, sul piano del controllo delle risorse, dei
territori e dei flussi mercantili e finanziari, sono spesso
contrapposti.
La
guerra contemporanea, nella sua dimensione multipolare, espande i suoi
fuochi ed il suo raggio d’azione, estende le proprie asimmetrie, ma
soprattutto contribuisce ad amplificare le forme di controllo e dominio
del capitale sulla vita. La guerra contemporanea è quella guerra
all’umano che viene compiuta quotidianamente sulle migliaia di persone
in marcia verso l’Europa: corpi mobili che esprimono (per ragioni
politico-militari, economiche e climatiche) l’impossibilità della
riproduzione della vita in alcune aree della Terra. La militarizzazione
dei confini e l’uso coercitivo sempre più frequente della forza pubblica
sui migranti si intrecciano in maniera inequivocabile con l’aumento
della violenza poliziesca nella gestione delle vertenze sociali. Lo
abbiamo visto in alcune lotte, localizzate principalmente nel
Nord-Italia (vedi la vertenza Prix di Grisignano), che hanno interessato
il mondo della grande distribuzione o nello sgombero forzato di case e
palazzine occupate per rispondere all’emergenza abitativa. Se da un lato
l’uso della coercizione è diretta espressione di una statualità
residuale che esprime la propria sovranità solamente nell’egemonia della
forza, dall’altro risponde direttamente alle esigenze di un rinnovato
rapporto tra capitale e vita, in cui si è rotta qualsiasi forma di
mediazione. In entrambi i casi emerge il carattere, molecolare e
diffuso, dalla guerra come prassi normalizzata nella risoluzione dei
conflitti.
La
guerra contemporanea fa oggi i conti anche con l’esautoramento
dall’alto dello Stato di diritto, inteso come forma storicamente
stratificata di organizzazione della società, basata sull’affermazionede
iure della democrazia nella gestione del potere e della partecipazione
alla vita pubblica. Sebbene il concetto di democrazia sia troppo
complesso da spiegare in poche righe ed abbia spesso rappresentato
quella foglia di fico attraverso cui la sinistra istituzionale ha
coperto la propria incapacità di leggere le contraddizioni sociali della
post-modernità, i nuovi assetti post-democratici impongono una
riflessione accurata sul modo in cui le élites riconvertono i propri
dispositivi di dominio di classe e normazione giuridica. Le modifiche
alla Costituzione francese, in seguito alla dichiarazione dello Stato di
emergenza da parte di Hollande dopo gli attentati del 13 novembre 2015,
rappresentano un vettore attraverso cui la guerra, interna ed esterna,
egemonizza il politico, divenendo elemento costituente dei nuovi assetti
di potere.
La
guerra sta dunque ridefinendo il suo carattere globale e permanente, il
suo continuo trasformarsi nel tempo lungo, e sta drammaticamente
acquisendo sempre più il carattere dell’ineluttabilità. Per questa
ragione la guerra viene sottratta al dibattito pubblico, diventa
questione privata, a tratti oscura, delle élites e dei loro interessi.
Viene unilateralmente dichiarata attraverso vertici ad hoc e pianificata
mediante accordi governativi che non passano neppure al vaglio
parlamentare.
La
guerra in Libia da parte della coalizione internazionale, che di fatto è
iniziata lo scorso 21 febbraio con l’attacco aereo statunitense a
Sabrata (cittadina ad Ovest di Tripoli, da novembre aspramente contesa
dall’alleanza Alba libica ed i miliziani dell’Isis), è l’espressione più
evidente della completa assenza di un dibattito pubblico.
In
Italia il governo Renzi, che ha recentemente stretto accordi con quello
statunitense per l’utilizzo della base di Sigonella come luogo di
partenza degli 11 droni che verranno utilizzati per colpire le 118
postazioni considerate “sensibili”, si è tenuto ben lontano
dall’inserire la guerra in Libia come tema di discussione parlamentare.
Nonostante questo il nostro Paese si è da tempo offerto di guidare la
coalizione di guerra. Non a caso l’Italia ha ospitato sia la conferenza
Onu sulla Libia, tenutasi a Roma lo scorso 13 dicembre, il cui piano di
unificazione del Paese è fallito nei giorni scorsi, sia lo “small group”
della coalizione, riunitosi alla Farnesina il 2 febbraio, in cui si
sono definite le linee guida dell’attacco.
Rispetto
all’utilizzo di Sigonella sia Renzi che Gentiloni continuano a
nicchiare. Da un lato evocano a sé la piena titolarità della definizione
delle regole d’ingaggio, dall’altro delegano completamente all’alleato
americano la responsabilità dell’utilizzo di armi d’attacco, come gli
AGM-114 Hellfire che partiranno dalla base italiana. E’ ancora tutta da
chiarire, inoltre, la disponibilità concessa dal governo italiano di
5.000 soldati da utilizzare in un’eventuale missione di terra. Dopo il
fallimento del piano Onu, che aveva come priorità quella di
salvaguardare l’unità della Libia attraverso la creazione di un Governo
nazionale che fosse espressione sia del parlamento di Tripoli che di
quello di Tobruk, l’ipotesi di un intervento di terra sembra diventare,
giorno dopo giorno, più concreta. Solo in questo modo verrebbe
garantita, sul piano politico e militare, la tripartizione del Paese in
tre aree di azione ed influenza (italiana, francese e britannica), che
rappresenta l’essenza del piano B studiato dall’Onu già durante la
conferenza del 13 dicembre.
Se
da un lato l’unità della Libia non sembra più una priorità per nessuno,
dall’altro le modalità attraverso cui la diplomazia internazionale sta
cedendo il campo all’ipotesi di un conflitto armato di ampia intensità
fanno riecheggiare i più beceri istinti coloniali dei Paesi occidentali
nel territorio libico. L’Italia in particolare preme sull’acceleratore,
nel tentativo di rincorrere francesi ed inglesi nella lotta per il
controllo delle risorse petrolifere e naturali.
Il
fallimento del piano Onu, e la conseguente guerra che ne scaturisce,
vanno inoltre inquadrati nel più generale fallimento della politica
internazionale in Libia, la cui incapacità di garantire una stabilità
dopo la caduta e l’uccisione di Gheddafi è intrinsecamente connessa alla
brutalità con cui sono state condotte le operazioni militari nel 2011,
soprattutto da parte degli Stati Uniti. Il vuoto politico ed
istituzionale creatosi nel Paese nord-africano dopo la guerra civile e
la deposizione di Gheddafi ha avuto un duplice effetto.
Da
un lato la barriera che frenava il transito dei migranti dal continente
africano all’Europa si è spostata dalla sponda sud del Mediterraneo a
quella nord. La Libia storicamente ha svolto un ruolo di regolazione e
controllo dei flussi migratori, in particolare dopo gli accordi di
Bengasi, siglati nel 2008 tra l’ex leader libico e l’allora presidente
del Consiglio italiano Silvio Berlusconi, che di fatto hanno reso la
Libia la più grande prigione a cielo aperto per migranti di tutto il
mondo. La fine del cosiddetto “tappo libico”, correlata con l’aumento
delle politiche restrittive sull’immigrazione fatte in Europa, ed in
particolare in Italia, ha consegnato migliaia di uomini e donne alla
mercé della criminalità organizzata transnazionale, arricchitasi con il
traffico di migranti, con le tragiche conseguenze a tutti note.
L’altro
effetto che ha avuto la fine del regime è stata l’unificazione, e
l’assunzione di un ruolo politico e militare sempre più influente ed
organizzato, di quelle milizie jihadiste radicali che in precedenza
erano state utilizzate dalle grandi corporation straniere per difendere i
propri interessi. Come dice Antonio Mazzeo in una recente intervista
rilasciata a Globalproject.info,
la nascita dell’Isis in Libia ha avuto una gestazione del tutto simile a
quella avvenuta in Siria ed Iraq ed è direttamente connessa con gli
effetti della guerra e con il ruolo interno giocato dalle potenze
straniere in questi Paesi.
Cinque
anni dopo ci ritroviamo con una guerra sulle spalle, un Paese diviso e
lacerato da conflitti interni ed un’altra guerra, probabilmente più
disastrosa, ancora da cominciare. La sintesi perfetta di un fallimento
annunciato ed, al tempo stesso, la perversione della guerra globale
nella sua necessità di doversi continuamente riprodurre.
Fonte: Global Project
Originale: http://www.globalproject.info/it/in_movimento/la-libia-nel-tempo-lungo-della-guerra-globale/19925
Nessun commento:
Posta un commento