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venerdì 15 maggio 2015

Ma gli Stati Uniti stanno facendo le guerre per Israele?

AUTORE: Linda S.Heard

Tradotto da Tradotto da Mauro Manno




Molti nel mondo musulmano e altrove si stanno facendo questa domanda: Quali sono le vere ragioni che hanno spinto gli Stati Uniti ad invadere l’Iraq e li spingono oggi a volere il rovesciamento dei governi di Siria e Iran? Malgrado tutte le loro pose grandiose, in verità, l’Iraq, la Siria e l’Iran non hanno mai rappresentato una minaccia diretta agli Stati Uniti. In termini molto semplici, sono troppo lontani dal nostro paese. E allora perché gli Stati Uniti sono così desiderosi di sacrificare tante vite umane e tanti denari per cambiare i regimi di quei paesi solo perché non gli piacciono?
Le teorie abbondano. In testa alla lista c’è la ricerca degli USA del petrolio, una risorsa non rinnovabile, in via di diminuzione.


Ma in realtà gli Stati Uniti ricevono molto poco petrolio dal Medio Oriente e dal Golfo. La maggior parte del petrolio di cui gli USA hanno bisogno giunge dal Sud America e dall’Africa. Un’altra teoria gira intorno al monopolio dei petrodollari, che sia l’Iraq sia l’Iran hanno cercato di demolire vendendo il loro petrolio in Euro. Ci potrebbe essere qualcosa di vero in questo ma la teoria non spiega perché anche la Siria si trovi nel mirino. Gli Stati Uniti dicono di voler esportare la ‘democrazia’ nella regione ma la loro reazione nei confronti del governo sciita in Iraq, diretto dal partito Dawa che ha stretti legami con l’Iran, e il modo in cui si cerca di isolare il nuovo governo palestinese democraticamente eletto e diretto da Hamas, lasciano pochi dubbi su questa affermazione. La democrazia non porterà governi amici degli Stati Uniti, il che in definitiva è ciò che l’amministrazione Bush realmente vuole, al contrario.

Sentiamo a questo punto il dovere di analizzare una premessa, a cui sono in molti nel mondo arabo a credere. Cioè: gli Stati Uniti stanno forse sconvolgendo e rimodellando il Medio Oriente in modo tale che Israele possa restare l’unica superpotenza regionale per sempre? Non si tratta di un’idea fantasiosa come qualcuno potrebbe pensare a prima vista. Si legga il seguente breve scritto stranamente profetico, tratto da un articolo del 1982 apparso nella rivista Kivunim, organo della Organizzazione Sionista Mondiale, firmato da Oded Yinon, un giornalista israeliano ben collegato al ministero degli Esteri di Israele. La strategia di Yinon era fondata su questa premessa.

Per poter sopravvivere Israele deve diventare una potenza imperiale in Medio Oriente e deve anche assicurarsi che tutti i paesi arabi siano frantumati in modo tale che l’intera regione sia suddivisa in deboli e piccole entità statali, non attrezzate per contrastare la potenza militare israeliana.
Queste sono le parole che il giornalista scriveva a proposito dell’Iraq: “La dissoluzione della Siria e dell’Iraq in aree distinte su base etnica o religiosa, come già avviene in Libano, è l’obiettivo primario di Israele sul fronte orientale. L’Iraq, ricco di petrolio da una parte, e dall’altra lacerato internamente, è certamente candidato ad essere preso di mira da Israele. La sua dissoluzione è per noi addirittura più importante di quella della Siria. L’Iraq è più forte della Siria. A breve termine, è proprio la potenza irachena che rappresenta la più grande minaccia per Israele.

Una guerra tra Iran e Iraq frazionerà l’Iraq e causerà la caduta del suo regime interno. Addirittura prima che esso sia in grado di organizzare una lotta su un ampio fronte contro di noi. Ogni tipo di scontro inter-arabo sarà a nostro favore nel breve periodo e accelererà il nostro scopo più importante che è quello di frantumare l’Iraq in vari staterelli come in Siria e in Libano. In Iraq è possibile realizzare una divisione in province su base etnica o religiosa come avveniva in Siria durante l’impero ottomano. Così tre (o più stati) si formeranno intorno alle tre principali città: Bassora, Baghdad e Mosul, e così le regioni sciite del sud si staccheranno dal nord sunnita e curdo.”

Vi torna nuovo tutto ciò? Concentriamoci sulla realtà, 24 anni dopo. La guerra di otto anni tra Iran e Iraq è terminata nel 1988 causando oltre un milione di morti ma non si è conclusa con la frantumazione tanto desiderata e auspicata da Yinon. L’Iraq ne è uscito ancora come un’ entità forte ed omogenea. L’Iraq tuttavia è stato fortemente indebolito nel 1991 in seguito alla prima guerra del Golfo, causata dall’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein. Pure allora il paese ha continuato a rimanere unito. Ci è voluta l’invasione del paese guidata dagli Stati Uniti nel 2003 e la successiva occupazione per riuscire a destabilizzare l’Iraq e dividerlo secondo linee settarie. In realtà, la sua nuova costituzione disegna una debole federazione con parziale autonomia per i curdi del nord e gli sciiti del sud, e così il paese è ora maturo per lo scontro settario, religioso ed etnico. Alcuni parlano di «guerra civile»[1].

Guardando alla Siria, notiamo che fino all’invasione dell’Iraq del marzo 2003, al Siria del presidente Bashar Al-Assad godeva ragionevolmente di buone relazioni con l’Occidente. Dobbiamo anche ricordare che la Siria combatté tra gli alleati della coalizione diretta dagli USA durante la prima guerra del golfo. La Siria ha anche votato, sebbene in modo riluttante la risoluzione ONU che ha dato il via all’invasione, ed è stata un forte alleato nella cosiddetta «guerra al terrore». E allora, state bene a sentire, alla Siria non poteva andar peggio. Improvvisamente, essa viene accusata di ogni tipo di «crimini», dall’aver nascosto le mitiche armi di distruzione di massa irachene, al continuare a proteggere insorti e terroristi, al permettere il libero passaggio di combattenti e armi in Iraq. Poi si mette sotto pressione Damasco perché termini la sua occupazione de facto del Libano in seguito all’assassinio del Primo Ministro libanese Rafik Hariri[2], e tutt’oggi il governo siriano è sotto inchiesta da parte dell’ONU con l’accusa di coinvolgimento nell’omicidio.

Oggi il governo americano è attivamente impegnato nell’indebolimento del governo di Al-Hassad e sostiene i partiti di opposizione. Se questa strategia avrà successo, gli esperti predicono che la Siria, come l’Iraq, diventerà vittima di conflitti settari e intestini. Il Libano, che ha cercato di riprendersi da una lunga guerra civile e da un’occupazione israeliana, e che ad un certo punto sembrava aver raggiunto una certa sembianza di unità, ora è anch’esso in pericolo di essere destabilizzato siccome i partiti si vanno schierando in una confederazione pro-siriana ed una anti-siriana.

Yinon descrive il moderno mondo arabo-musulmano come un castello di carte temporaneo, costruito dagli stranieri e arbitrariamente diviso in Stati, tutti costituiti di varie combinazioni di minoranze e gruppi etnici tra loro ostili. Quindi lamenta la cessione del Sinai all’Egitto da parte di Israele in osservanza del trattato di pace di Camp David, dal momento che quella regione è ricca di riserve di petrolio, gas ed altre risorse naturali. “Riconquistare la penisola del Sinai è, quindi, una priorità politica, alla quale si oppone il trattato di Camp David” egli scrive. “E noi dovremo agire in modo che si ritorni alla situazione che esisteva in Sinai prima della visita di Sadat e l’errato accordo di pace firmato con lui nel marzo 1979”.

Yinon quindi predice che se l’Egitto viene diviso e spezzato, altri stati arabi cesseranno di esistere nella loro forma presente e nascerà uno stato copto nell’Altro Egitto. Attualmente ci sono problemi crescenti tra i musulmani e i copti d’Egitto; questi ultimi vengono considerati da alcuni musulmani fondamentalisti egiziani come una popolazione più leale agli Stati Uniti che al proprio paese. Ciò ha avuto come risultato alcuni scontri aperti con, spesso, morti e feriti. A parte le divisioni tra copti e musulmani, Yinon sbagliava i suoi calcoli riguardo all’Egitto. Egli era convinto che il Cairo non avrebbe rispettato il trattato di pace con Israele, dando così agli israeliani l’opportunità di spingere nuovamente i loro carri armati nel cuore del Sinai e di altre regioni concupite. Tuttavia, il governo egiziano diretto dal pragmatico presidente Hosmi Mubarak si è attenuto alla lettera del trattato e, negli anni, è diventato un potente alleato degli Stati Uniti. La soluzione che Yinon propone per l’interminabile conflitto israelo-palestinese è quella di spingere i palestinesi al di là del fiume Giordano e poi chiamare la Giordania «Stato Palestinese».

Egli rigettava già allora il principio terra in cambio della pace, affermando che “non è possibile continuare a vivere in questo paese nell’attuale situazione, senza separare le due nazioni, gli arabi a est del Giordano e gli ebrei a ovest del fiume. Una genuina pace e coesistenza regneranno sulla regione solo quando gli arabi capiranno che senza il dominio ebraico tra il Giordano ed il mare non ci sarà mai per loro né esistenza né sicurezza – essi avranno una nazione per loro e la sicurezza solo in Giordania”. Yinon e gli altri che ragionano allo stesso modo devono ancora una volta disilludersi. La Giordania ha da tempo abbandonato i sogni del panarabismo, molto prima dell’uscita di scena di re Hussein, e oggi, suo figlio re Abdullah è l’alleato più sicuro dell’America nella regione. Con una maggioranza di due terzi di palestinesi nel paese, Abdullah ha scelto di sopravvivere attaccandosi al vestito degli americani. L’idea di spedire 4 milioni e mezzo di palestinesi al di la del Giordano non viene più propagandata apertamente in Israele, sebbene questa opzione era seriamente presa in considerazione nel 2002, secondo un articolo del professore van Creveld apparso sul quotidiano inglese Daily Telegraph.

Allora, da un sondaggio della Gallup risultava che il 44% degli ebrei israeliani erano favorevoli all’espulsione dei palestinesi al di là del Giordano. Il professore van Creveld era convinto che anche Sharon fosse favorevole a questo piano. Nel suo articolo si sottolineava una citazione di Sharon nella quale si metteva in evidenza il fatto che i palestinesi siano maggioranza in Giordania e in cui ci si riferiva alla Giordania come al vero Stato palestinese. “La deduzione che i palestinesi dovrebbero andare lì è chiara,” scrisse Creveld. Se pensate che sia fantasiosa l’idea che gli Stati Uniti si schiererebbero su questa linea per gli interessi di Israele, allora è bene ricordare le parole che il Primo Ministro israeliano, poi assassinato, Yitzhak Rabin, il quale sosteneva nel suo libro che il governo di Israele era, in realtà, responsabile dell’elaborazione della politica americana in Medio Oriente dalla «guerra del sei giorni» in poi.

Lo scritto di Yinon non affronta il problema dell’Iran, ma diamo un’occhiata a dichiarazioni recenti da parte di personalità israeliane su questo argomento. Durante una visita a Washington nel novembre 2003, due anni prima che gli Stati Uniti prendessero di mira l’Iran, il Ministro della Difesa israeliano Shaul Mofaz dichiarò ai dirigenti americani che “in nessuna circostanza Israele avrebbe accettato il possesso di armi nucleari da parte dell’Iran”. Durante lo stesso mese, Meir Dagan, direttore del Mossad, affermò davanti a un Comitato Parlamentare che l’Iran rappresentava una «minaccia esistenziale» per Israele, rassicurando però i membri del Parlamento che Israele era in grado di affrontare questa minaccia.

L’anno scorso, la retorica israeliana su questo argomento è aumentata ulteriormente con il Ministro degli Affari Esteri israeliano, Silvan Shalom, che ha affermato davanti ai giornalisti: “l’idea che questa tirannide dell’Iran avrà un giorno una bomba nucleare è un incubo, non solo per noi ma anche per l’intero mondo”. L’attuale Primo Ministro israeliano designato Ehud Olmert sta continuando la tradizione di gonfiare la minaccia iraniana assistito in ciò, lo si deve dire, dalla retorica infuocata dell’incauto dirigente di Teheran, Mahmoud Ahmedinejad. Un articolo del Daily Telegraph in data 18 febbraio aveva per titolo «l’America sosterrebbe un attacco israeliano contro l’Iran» e indica chiaramente che è Israele a condurre la carica contro l’Iran. L’articolo cita le seguenti parole di George W. Bush “Chiaramente, se io fossi il capo di Israele e sentissi alcune delle dichiarazioni degli ayatollah iraniani riguardo alla sicurezza del mio paese, certo sarei preoccupato di un Iran che possieda anche armi atomiche. E in ciò Israele è nostro alleato e noi abbiamo preso un impegno molto forte per sostenere Israele e noi sosterremo Israele se la sua sicurezza è minacciata”.
Un anno è passato e il governo americano non descrive più le presunte ambizioni nucleari iraniane come una minaccia a Israele, ma come una minaccia agli Stati Uniti. In questo modo una guerra contro l’Iran e le possibili ripercussioni che essa avrebbe, possono essere vendute al popolo americano. Improvvisamente le preoccupazioni israeliane sono diventate quelle dei dirigenti americani. E’ interessante notare che, secondo un recente sondaggio, più del 50% degli americani affermano che sarebbero favorevoli ad attacchi contro gli impianti nucleari iraniani.

Come afferma l’editorialista Doug Ireland nel suo libro bianco dal titolo «La vera storia del gruppo di spie dell’AIPAC riguardava l’Iran», “il lapsus linguae di Bush che ha rivelato le sue vere intenzioni (verso l’Iran, NdT) ha avuto la prima pagina su Le Monde e su altri quotidiani europei ma ha ricevuto pochissima attenzione nei maggiori media nazionali americani”. Justin Raimondo, lo scorso settembre ha scritto: “Questa faccenda ha ricevuto piuttosto poca pubblicità in relazione alla sua importanza. Non si tratta solo del fatto che, per la prima volta a memoria d’uomo, la potente lobby israeliana è stata umiliata. Ciò che sta accadendo è che negli Stati Uniti si sta mettendo in luce l’esercito sotterraneo di Israele, le sue legioni nascoste di propagandisti e di spie a tutti gli effetti, il cui lavoro non è solo quello di appoggiare Israele ma di piegare la politica americana in modo tale che aderisca agli interessi di Israele, e in questo processo, penetrare segreti americani estremamente riservati”.

Tornando alla questione se gli Stati Uniti stanno, nei fatti, facendo guerre nell’interesse di Israele, diciamo, in breve, che non possiamo esserne certi e non sapremo mai esattamente dal momento che la Casa Bianca di Bush ha secretato i nastri e i documenti privati per 100 anni. Ma c’è una cosa che sicuramente sappiamo. Il piano di Oded Yinon del 1982 denominato «piano sionista per il Medio Oriente» in larga misura sta ora prendendo forma. E’ solo una coincidenza? Forse Yinon era uno psichico dotato? Forse!

In alternativa dobbiamo pensare che noi, in Occidente, siamo le vittime di una progetto in agenda a lungo termine, non elaborato da noi e senza alcun dubbio, non certamente nel nostro interesse.

Linda S. Heard è una specialista britannica del Medio Oriente e vive al Cairo. Una prima versione di questo articolo è apparsa precedentemente sulla rivista Al Shindagah, una pubblicazione di Dubai.


[1] Temiamo che il misterioso attentato alla moschea di Samarra, subito attribuito a Zarkawi, che ha scatenato gli scontri etnici e religiosi tra sunniti e sciiti, i quali ancora perdurano e fanno pensare ad una guerra civile, non sia altro che un intervento criminale di Stati Uniti e Israele allo scopo di portare avanti il progetto sionista di frantumare il paese (Ndt).

[2] Anche in questo caso temiamo che l’assassinio di Hariri sia solo un ulteriore intervento sionista. Quale interesse aveva la Siria di compiere un simile atto, chiaramente definibile come suicidio politico? I risultati sono stati infatti l’indagine ONU sul governo siriano, una svolta filo-occidentale nel governo libanese, il ritorno in forza dei cristiani maroniti sulla scena politica libanese e la richiesta di isolamento e disarmo dell’unica forza coerente contro Israele rappresentata da Hezbollah, la stessa strategia sionista di isolamento e disarmo messa in pratica contro Hamas in Palestina (Ndt).

Tradotto dall'inglese in italiano da Manno Mauro e revisionato da Mary Rizzo, membri di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica. Questa traduzione è in Copyleft.






LA TERRA DI CANAAN: 01/05/2006
Preso da:


http://www.tlaxcala.es/pp.asp?reference=227&lg=it

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