Pubblicato: 17/05/2015 17:53 CEST Di Giulia Belardelli
Cinque giorni rinchiuso in una cella a Bengasi, per oltre 48 ore senza cibo né acqua, né tanto meno la possibilità di andare in bagno. Cinque giorni di minacce e urla disumane che arrivavano dalle stanze accanto, echi di torture sulla pelle di altri prigionieri. È l’incubo vissuto da Lorenzo Meloni, fotografo italiano dell'agenzia fotografica Contrasto, che fino a pochi giorni fa si trovava in Libia per documentare cosa accade nel Paese di cui tutti parlano, ma che in pochi capiscono davvero. Assieme a un cameraman della Bbc, Lorenzo voleva entrare a Bengasi per seguire gli scontri tra l’esercito regolare di Tobruch, guidato dal generale Khalifa Haftar, e i gruppi islamisti presenti sul territorio, tra cui Daesh (acronimo di Isis, ndr), Ansar al-Sharia, 17th February Martyrs Brigade e Libya Shield 1. La strada per entrare non può che essere una: affidarsi ai parlamentari di Tobruch e all’esercito per avere tutti i permessi necessari, accettando di farsi organizzare il viaggio e poi farsi seguire passo passo dai militari. Qualcosa, però, è andato storto lo stesso.
La storia che Lorenzo racconta ad HuffPost è esemplificativa di cosa è oggi la Libia: uno Stato fallito dove a regnare è il caos. Uno Stato dove ci sono due governi, due parlamenti, circa centoquaranta tribù, duecentotrenta milizie armate – oltre l’Isis. Una terra in cui vige il principio del tutti contro tutti, dove ognuno fa come gli pare e i governi non hanno nessun potere. Soprattutto a Bengasi, dove a un fotografo italiano può capitare di finire incappucciato e incarcerato da quelli che dovrebbero essere i servizi segreti di Tobruch dopo aver cenato, dormito e fatto colazione pochi giorni prima a casa del ministro degli Interni dello stesso governo di Tobruch, Omar al Sanki.
Il racconto di Lorenzo è lungo e complesso, poiché lunga e complessa è la trafila burocratica che lui e il cameraman della Bbc hanno seguito per fare tutto secondo “le regole”. Lorenzo e il cameraman, infatti, non sono due sprovveduti né due avventurieri: sanno benissimo che per entrare a Bengasi e fare quello che vogliono fare – documentare cosa avviene al fronte, nelle prigioni e negli ospedali – l’unico modo è non fare nulla che possa innervosire i militari. Inizialmente tutto va secondo i piani: i due vengono “affidati” alle forze speciali antiterrorismo, parte dell’esercito di Tobruch, passano una trentina di checkpoint e finalmente entrano a Bengasi.
I primi giorni Lorenzo e il cameraman vengono scortati nelle zone di combattimento tra le postazioni dell’artiglieria. Visitano anche un carcere con una ventina di prigionieri delle milizie islamiche. Tra questi c’è anche un leader di Libya Shield 1 che racconta a Lorenzo di aver ucciso personalmente Chris Stevens, l’ambasciatore americano in Libia, strangolandolo con la cravatta. Lorenzo e il cameraman sono soddisfatti: il lavoro sta andando bene, e il giorno seguente hanno altri appuntamenti sempre tramite i militari libici.
La mattina dopo, però, nessuno viene a prenderli. Trattandosi dell’ultimo giorno previsto a Bengasi, i due si attivano lo stesso per visitare l’ospedale Al Markazi, il principale della città. Tramite un contatto della France Presse, riescono ad avere il numero di un medico che lavora nell’ospedale: il dottore li invita nella struttura, per poi assumere un atteggiamento “strano”, racconta Lorenzo. A questo punto inizia un’odissea di rimpalli da un ufficio all’altro, fino a quando i due vengono fatti salire su un’auto che li scarica di fronte un edificio con la scritta “Istikbal Mukhabarat”. Ufficio investigazioni dei servizi segreti.
“Il capo di questo ufficio dei servizi segreti ci sequestra i telefoni e tutta l’attrezzatura. Ci dice che non abbiamo il permesso per lavorare a Bengasi”, racconta Lorenzo. “Gli spieghiamo tutto, diamo i nomi e i cognomi delle persone con cui siamo in contatto. Ma lui non vuole saperne: dice che non possiamo lasciare Bengasi, che saremmo in arresto ma che per gentilezza ci affida a un giornalista libico, il quale avrà il compito di riportarci all’ufficio investigazioni appena la nostra posizione si sarà chiarita. Inutile dire che si tengono tutto: computer, macchina fotografica e il resto dell’attrezzatura”. Lorenzo e il cameraman vanno via con questo giornalista libico, telefonano alle forze speciali con cui erano “embedded” fino a poche ore prima, avvertono alcuni parlamentari di Tobruch. Quando i servizi segreti richiamano il giornalista libico dicendogli di riportarli indietro, Lorenzo e il cameraman pensano che sia tutto finito. E invece è l’inizio di un incubo.
“Entriamo nell’ufficio – racconta il fotografo italiano – e al posto del capo di prima troviamo un ragazzo sui 25 anni con la barba lunga. Sembra un combattente di Daesh o Ansar al-Sharia più che un membro dell’esercito. Mi trovo davanti a lui, faccio per dargli la mano… ma lui si rifiuta e mi intima di mettermi seduto. Nel mentre mi chiama il ministro degli Interni, che evidentemente ha saputo della mia vicenda. Ho solo il tempo di dirgli ‘sono sotto arresto’. Il barbuto mi prende il telefono e tutto ciò che mi era rimasto. Mi separano dal cameraman. Mi indirizzano verso un corridoio, dall’altra parte vedo degli uomini armati venire verso di me. Faccio qualche passo nell’altra direzione e in pochi attimi mi ritrovo un cappuccio in testa e la maglietta rigirata sul capo. Mi prendono per le braccia e mi buttano su una macchina”.
Lorenzo viene portato in un altro edificio, pieno di gente. Lo mettono faccia al muro, con il cappuccio ancora in testa, e lì resta per ore. “Mi girano intorno delle persone che mi dicono ‘noi siamo lo Stato islamico’ e mi chiamano ‘infedele’… Dopo tre o quattro ore mi vengono a prendere e mi sbattono in una cella. Per due giorni nessuno si fa vedere. Niente acqua, cibo, bagno…”.
Lorenzo si agita, dice ai suoi carcerieri che non dare cibo né acqua né la possibilità di andare in bagno è “haram”, vale a dire contrario alla religione. “Finalmente arriva un tizio che mi porta un cornetto confezionato e una bottiglietta d’acqua per bere e per pisciare. Dalle altre stanze arrivano urla disumane, come di qualcuno che viene torturato o picchiato a morte”.
Poi, il terzo o quarto giorno, arriva un altro uomo con la barba lunghissima. Lorenzo viene sottoposto a un lunghissimo interrogatorio. Gli viene fornito un sedicente interprete, ma presto capisce che è meglio affidarsi al suo arabo. “Temevano fossi una spia – racconta Lorenzo – gli ho mostrato le foto, i file nel mio computer che dimostravano il mio lavoro, ma niente… non si convincevano. Mi hanno controllato gli anelli e le cuciture della maglietta per vedere se avevo delle microspie… cose che neanche un b-movie di spionaggio”. Lorenzo rifinisce in cella, passano altri due giorni. Ancora controlli, altre mille domande.
Poi, finalmente, la situazione si sblocca. Prima di essere liberato, Lorenzo viene portato in un’altra cella, completamente al buio, dove rincontra il cameraman della Bbc, per metà libico. “Siamo in un grande guaio, vero?”, gli chiede Lorenzo. “Temo di sì”. È il giornalista libico ad avergli riferito di un ordine impartito nel momento concitato degli spostamenti da un ufficio all’altro: “prendete quei due giornalisti e ammazzateli”. La settimana prima era toccato a cinque giornalisti della televisione libica, trovati decapitati nella città di al-Bayda, una delle tappe del viaggio di Lorenzo verso Bengasi. Secondo al Arabiya, i reporter sarebbero stati decapitati da membri dello Stato islamico. Per il fotografo italiano e il cameraman Bbc, fortunatamente, le cose vanno in un altro modo: vengono rilasciati, pur senza la loro attrezzatura, con l’ordine di sparire al più presto d Bengasi.
Il bello è che in tutto ciò – come dimostra la foto d’apertura di questo articolo – Lorenzo Meloni aveva appuntamento con il generale Haftar per fare da cameraman per un’intervista con la Rai. Lorenzo racconta al generale dell’accaduto. Haftar si impegna a fargli riavere tutte le sue cose, lo mette in contatto con un suo consigliere incaricato di seguire il caso. Dopo varie trafile, Lorenzo riottiene la sua macchina fotografica – rotta – e il suo computer – senza hard disk. Il consigliere promette di fargli ottenere tutto il materiale, ma poi, dopo qualche giorno, è lui stesso a dare forfait. “Questa persona mi confida che teme che i servizi segreti gli stiano mentendo. Dice che gli hanno ordinato di lasciar perdere. Mi mette in guardia sul fatto che per me è pericoloso restare in Libia. E mi dà un consiglio: se qualcuno ti chiama per riconsegnarti il materiale, assolutamente non ci andare”. Lorenzo segue il consiglio e se ne torna a casa, in Francia. “In quei giorni – conclude – ho vissuto sulla mia pelle cosa è davvero la Libia. Un luogo in cui ognuno fa come gli pare, ogni milizia è in lotta con l’altra e il governo no, non ha alcun potere”.
Preso da: http://www.huffingtonpost.it/2015/05/15/libia-lodissea-di-un-fotografo-italiano_n_7291392.html
Visto questa intervista a Cruciani che parla di RDS Academy? Interessante! http://spettacoli.tiscali.it/articoli/news/15/05/intervista-giuseppe-cruciani.html
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