Grandi opere e pmi bloccate. L'Eni resiste. Ma la Camera italo-libica non si arrende: «Serve agire subito».
di Barbara Ciolli
Incendiate le piste di Tripoli, la battaglia si è spostata a Bengasi.
ARIA DI GUERRA CIVILE. Si sa poco, sempre meno della Libia: poche foto, i dispacci ufficiali delle agenzie con notizie sempre più allarmanti, tipo le ambasciate chiuse e i voli da e verso l'estero sospesi, con gli aggiornamenti sulle decine di morti in «scontri», classificati di routine. Tanto poi, miracolosamente, come in effetti succede, le forniture di petrolio verso l'Italia procedono regolari, senza contraccolpi.
Nessuno ha il coraggio di scrivere che in Libia è riesplosa la guerra civile come nel 2011, meglio attendere con prudenza gli sviluppi. Gli interessi dell'Italia a Tripoli sono troppo importanti, maggiori di quelli degli altri Paesi europei. Non a caso l'ambasciata italiana è l'unica tra le europee rimasta aperta, in un clima emergenziale, nella fase più acuta dei combattimenti senza acqua, né elettricità per i collegamenti.
LE PMI BLOCCATE. Tutto, tranne l'Eni, è fermo, raccontano a Lettera43.it gli imprenditori italiani che hanno sedi e impianti nell'ex Jamahiriya.
Gli appalti di regime delle opere pubbliche (autostrade, scuole, ospedali), concordati tra Muammar Gheddafi e il governo Berlusconi, non sono mai partiti. Dopo il 2011, centinaia di piccole e medie imprese erano pronte a lanciarsi nella ricostruzione, anche a Bengasi e Misurata, perché, spiegano alla Camera di Commercio italo-libica, «le aziende disposte a investire erano molte più del centinaio presente prima della caduta di Gheddafi». Almeno il triplo, alle fiere e agli eventi commerciali.
100 ITALIANI RESTANO. Precipitata la situazione, reti come la Sme Task Force (82 imprese italiane del Nord-Est), fondata nel 2012 per operare nel mercato libico, hanno interrotto i viaggi e bloccato i contratti in fieri, per i «forti rischi sulla sicurezza e nei pagamenti». «Già dal luglio scorso», conferma il responsabile per gli Affari economici e commerciali all'ambasciata italiana a Tripoli Michele Rossi, «la Farnesina raccomandava a tutti i connazionali di lasciare la Libia. A questo scopo sono stati messi a disposizione dei voli dell’aeronautica militare».
Ma un «centinaio di italiani» resiste. «Per lo più persone che risiedono nel Paese da tempo>>
La Camera italo-libica alla Farnesina: «Bisogna agire subito»
La Farnesina è in contatto costante con loro. Alcuni sono al lavoro nella Camera italo-libica.
«La sede di Tripoli resta aperta con personale misto», spiega il presidente Gian Franco Damiano, «la situazione è critica, nessuno lo nega. Ma non molliamo, perché la Libia non è l'Afghanistan, anche se rischia di diventare una nuova Somalia. Qua ci sono opportunità, c'è fermento, ma bisogna fare presto. I libici combattono tra loro, ma vogliono anche tornare a guidare le loro Porsche Cayenne».
CAOS A MISURATA. Molto attivi nelle relazioni con l'Italia sono i mercanti di Misurata, città portuale dove si parla bene la nostra lingua. La sua brigata ha sferrato un'offensiva contro i rivali di Zintan che difendono le forze politiche del vecchio parlamento.
UNO STATO, DUE GOVERNI. Assaltati i palazzi del potere e preso l'aeroporto, gli scontri si sono spostati a Bengasi e, da settembre, sono in funzione due Congressi (l'organo legislativo libico) e due governi.
Nella capitale, le milizie di Misurata, alleate con i gruppi islamisti, si sono piazzate nel parlamento svuotato e hanno auto-proclamato un nuovo esecutivo. A Tobruk, invece, vicino all'Egitto, sono fuggiti i deputati così come il governo dei cosiddetti laici-liberali. «Pur con grandi divisioni, la Libia non si spaccherà mai. A Tripoli, quest'ultima settimana non si è sparato un colpo», racconta Damiano, «bisogna vedere cosa succede a Bengasi, dove, oltre alla guerra tra milizie, i cittadini comuni sono scesi in strada infuriati per i bancomat bloccati. Tripoli è come Roma. Bengasi come Milano, gli affari si fanno lì».
«STIAMO PERDENDO TERRENO». Ma, per la Camera di Commercio italo-libica, l'Italia avrebbe dovuto avuto assumere una posizione più netta, di leadership: «Bisognava e bisogna agire prima che la situazione sia irrecuperabile. Invece negli ultimi mesi la Farnesina non si è esposta. La politica italiana è ferma. Gli altri si muovono eccome per i loro interessi. Noi, che partivamo avvantaggiati, perdiamo terreno».
Gli interessi italiani divisi tra Misurata e Tobruk
Dopo settimane di silenzio, il ministro degli Esteri italiano e neo “ministro” degli Esteri europeo (Ue) Federica Mogherini ha inviato un messaggio alla Libia, lasciando trapelare una verità scomoda. «Trovate il coraggio di sedervi attorno a un tavolo per governare insieme il vostro Paese», ha detto la responsabile della Farnesina, aprendo a entrambe le fazioni.
Da sola, l'Italia non può riconoscere il nuovo governo di Tripoli, come extrema ratio e ultima chance che la situazione si calmi, perché l'esecutivo di riferimento - con diversi passaggi di mano - del parlamento legittimamente eletto è quello relegato a Tobruk e ormai privo di controllo del Paese.
Da lì l'impasse, che blocca l'Ue e tutta la comunità internazionale, a scapito delle imprese, disposte a tentare il tutto e per tutto.
LIBIA PRONTA PER L'EXPO. Ancora nell'aprile scorso, in una capitale sotto celato coprifuoco, più di 650 società nazionali e internazionali partecipavano alla 42esima Fiera internazionale di Tripoli, con un drappello di oltre 300 alte personalità, libiche e straniere, a presenziare la cerimonia di apertura.
La nuova Libia si dichiarava in pista per iscriversi all'Expo 2015 di Milano e 55 aziende italiane si registravano alla fiera internazionale sull'edilizia di Tripoli di maggio 2014, la Libya Build, in concorrenza con altre 700 imprese, la metà delle quali straniere.
I connazionali con meno protezioni, comunque, vista l'aria che tirava, avevano scelto il disimpegno mesi prima, nonostante gli ex ribelli al potere fossero decisi a mantenere relazioni privilegiate con Roma: un esempio per tutti, la maxi commessa dell'Enav (Ente nazionale per l'Aviazione civile) da 1 milione di euro del settembre 2012, per formare 140 controllori del traffico aereo negli scali libici poi assaltati.
LIBIA PRONTA PER L'EXPO. Ancora nell'aprile scorso, in una capitale sotto celato coprifuoco, più di 650 società nazionali e internazionali partecipavano alla 42esima Fiera internazionale di Tripoli, con un drappello di oltre 300 alte personalità, libiche e straniere, a presenziare la cerimonia di apertura.
La nuova Libia si dichiarava in pista per iscriversi all'Expo 2015 di Milano e 55 aziende italiane si registravano alla fiera internazionale sull'edilizia di Tripoli di maggio 2014, la Libya Build, in concorrenza con altre 700 imprese, la metà delle quali straniere.
I connazionali con meno protezioni, comunque, vista l'aria che tirava, avevano scelto il disimpegno mesi prima, nonostante gli ex ribelli al potere fossero decisi a mantenere relazioni privilegiate con Roma: un esempio per tutti, la maxi commessa dell'Enav (Ente nazionale per l'Aviazione civile) da 1 milione di euro del settembre 2012, per formare 140 controllori del traffico aereo negli scali libici poi assaltati.
Gli imprenditori del Nord-Est si ritirano: «Troppi rischi»
.Nove mesi prima, era nata la Sme Task Force per la ricostruzione in Libia delle piccole e medie imprese italiane del Nord-Est.
MANCANZA DI SICUREZZA. «Caduto Gheddafi, il 30-40% delle attività si era rimesso in moto, gli italiani presenti avevano ripreso a lavorare. Ci credevamo», racconta Arduino Paniccia, direttore della Scuola di competizione economica internazionale di Venezia e presidente della rete di investitori in Libia. «Poi, però, già nel 2013, il livello di sicurezza era sulla soglia di guardia e ha continuato a peggiorare. Sono stato personalmente in Libia in mesi già difficili. Anche i cinesi, che avevano centinaia di aziende e dipendenti, hanno abbandonato il Paese senza esitare».
Appurato il clima, i membri del gruppo hanno ricevuto una mail e l'ingranaggio si è fermato: «Muoversi era pericoloso, a causa degli attentati e i sequestri. Del tecnico friulano della Ravanelli, Gianluca Salviato, rapito nel marzo scorso, non si sa nulla. I pagamenti potevano saltare. Così abbiamo sospeso le attività, anche in anticipo rispetto ad altri».
GRANDI APPALTI FERMI. Certo, per i grandi gruppi che con Gheddafi vincevano appalti di Stato è più facile mantenere una presenza sul territorio, ma «anche queste opere strutturali e infrastrutturali sono naufragate» precisa Paniccia. «Nel caos è pure finita nel dimenticatoio la risoluzione del contenzioso Italia-Libia. Peccato, perché la terra è promettente per gli investimenti. Ma la cosa peggiore, al momento, è appunto che il Paese è precipitato in un caos del quale non si vede la fine».
L'ambasciata italiana a Tripoli informa che «almeno i residenti nelle zone vicino all'aeroporto», dove ha la sua sede l'italiana Bonatti, leader nella costruzione di gasdotti e cantieri ingegneristici, «si sono visti costretti a lasciare la capitale o il Paese».
Salini-Impregilo ferma. Solo l'Eni regge: «Produzione standard»
Salini-Impegilo, nel 2013 aggiudicataria (come da accordi del 2009) della maxi commessa dell'autostrada costiera (400 chilometri per una forza lavoro di 2 mila persone e un valore di 963 milioni di euro), conferma che, «al momento è tutto fermo». E, «in attesa degli eventi, non ha espatriati in loco».
PERSONALE RIENTRATO. «Del centinaio di aziende attive in Libia prima della crisi attuale quasi tutte hanno fatto rientrare il personale», riassume Rossi dalla sede diplomatica di Tripoli, consultando gli ultimi dati a disposizione. «Ma hanno ancora nel Paese le sedi degli uffici o i cantieri, spesso affidati a personale locale. Restano attive soprattutto le società legate al settore petrolifero, a ranghi ridotti in campi chiusi o in piattaforme offshore». Tra queste, «Eni, Bonatti, Dietsmann e Augusta Maritime Service. E, per il settore delle costruzioni, limitatissime presenze di Piacentini, Ravanelli e Conicos».
Il Cane a sei zampe è descritto come un monolite impermeabile ai colpi di mano, quasi una repubblica a sé in Libia.
ITALIA PARTNER PREZIOSO. Con oltre il 70% del Prodotto interno lordo (Pil) dipendente dagli idrocarburi, nessuna fazione che ambisce ad andare al potere, neppure i jihadisti, ha interesse a far saltare i gasdotti e bloccare l'export di greggio, rovinando le buone relazioni con l'Italia.
Anzi il cuore del conflitto tra tribù e brigate è nell'accaparrarsi il patrimonio miliardario di Gheddafi e il business smisurato di petrolio e gas. «Teniamo la Libia sotto strettissima osservazione. Negli impianti è rimasto solo il personale necessario e sono pronti i piani d'evacuazione», fanno sapere dal quartier generale dell'Eni, «ma, con 180 mila barili al giorno, la produzione rientra negli standard dei livelli pre-crisi».
L'Eni estrae in tutto il Paese, in partnership con le aziende petrolifere di Stato, come stabilito e alla fine in Libia l'intero indotto commerciale, anche quello delle imprese straniere «meno strategiche per la struttura economica nazionale», dipende dai pozzi. «In un contesto d'emergenza, lavoriamo sostanzialmente tranquilli. Siamo sull'attenti, ma non in emergenza».
Solo l'oro nero, insomma, tiene insieme il Paese.
Martedì, 09 Settembre 2014
Preso da: http://www.lettera43.it/economia/aziende/libia-le-aziende-italiane-ferme_43675139843.htm#.VA7xdDvlS5s.twitter
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