Translate

lunedì 2 marzo 2015

Calcio e radio, la vita dei profughi in fuga dalla Libia, dall' ISIS ( e dai controlli).

Venerdì sono arrivati da Lampedusa 160 migranti. In tanti sono già scappati. Le storie di chi è rimasto

BOLOGNA - «È passato un anno, nemmeno me lo ricordo più perché sono partito». Hadim (i nomi nell’articolo sono di fantasia per tutelare i richiedenti asilo, ndr) ha gli occhi lucidi e le mani ruvide di chi ha vissuto più dei suoi vent’anni. È alto, magro, indossa un giaccone nero e un paio di jeans. Ha attraversato mezza Africa a piedi prima di arrivare ai barconi. «La mia famiglia è in Gambia, non ho loro notizie da mesi. Sono partito senza soldi: ho camminato». Senegal, Mali, Niger, Libia. La ricerca di una vita migliore che si infrange sulle onde sotto il barcone diretto a Lampedusa. Una traversata che può costare mille, duemila dollari a volte. «Eravamo in 120 sulla barca, il viaggio è durato due notti. È stata dura».

Da lunedì Hadim è uno dei migranti ospiti dell’hub regionale di via Mattei, l’ex Cie che da centro di «detenzione amministrativa» si è trasformato la scorsa estate in un limbo dalle porte girevoli: entra chi deve essere sottoposto alle procedure di registrazione, screening sanitario e fotosegnalamento, esce chiunque voglia farlo. Nel pomeriggio di ieri, a meno di 24 ore dall’atterraggio al Marconi, dei 160 migranti appena arrivati in via Mattei ne rimavano pochissimi. Qualcuno è uscito per vedere la città. Decine hanno già preso il largo: nessuno può trattenerli. Bologna per loro è solo una tappa nel viaggio che chissà dove finirà. Sempre che alla frontiera qualcuno non li respinga, costringendoli a restare in Italia.

Chi vive qui da tempo racconta che sono tanti quelli che lasciano subito via Mattei, quasi uno su due. Diversamente sarebbe impossibile accettare nuovi migranti da sottoporre al protocollo di accoglienza senza superare la capienza dei 255 ospiti. La procedura per chi richiede asilo dura in media cinque mesi. Desmon aspetta da oltre un mese. «Vorrei restare in Italia — racconta — ma non ho ancora trovato un lavoro». Per il momento guarda la partita di calcetto che una mezza dozzina di ragazzi sta giocando al tramonto. «Palla!», una delle poche parole italiane che qui conoscono tutti. Gli ultimi raggi di sole filtrano tra il filo spinato sulle mura esterne e le sbarre attorno campetto: non è un bello spettacolo, ma i soldi le gabbie del Cie non sono mai arrivati. Quantomeno le sbarre tengono la palla sempre in gioco.

Sotto il portico del corpo centrale una cinquantina di migranti fa la coda per ricevere quello che qui chiamano pocket money. E che un dizionario inglese-italiano traduce in modo decisamente meno politically correct «paghetta». Due euro e cinquanta al giorno in un’unica soluzione settimanale: diciassette euro e cinquanta. Qualcuno li usa per fare un po’ di spesa in via Larga, magari si è stufato dei pasti forniti dalla mensa. Qualcun altro dopo qualche settimana si è comprato un cellulare di seconda mano, una radio per ascoltare un po’ di musica. C’è chi prova a distinguersi dalla massa: un giaccone bianco e mocassini abbinati. È difficile non sentirne il bisogno, quando dormi in camerate da 6/8 persone e indossi abiti di seconda mano.

A Ebo, che è arrivato con l’ultimo volo, è toccata una tuta nera in acetato. Viene dal Ghana, ha la barba corta, gli occhi grandi e la parlantina veloce. «Ero andato in Libia per lavorare, non pensavo di venire in Italia. Ma lì la situazione era peggiore del mio Paese e siamo partiti». Quasi cinquanta nel suo barcone. «Continuava a imbarcare acqua — racconta — noi la tiravamo fuori con le mani, per tutto il viaggio». Se gli chiedi cosa pensa dell’Isis, dei timori di chi pensa ci siano terroristi nascosti tra i migranti, spalanca ancora di più gli occhi. «Guardali, questa è gente che chiede aiuto e cerca solo una vita migliore. Io resterò qui per il resto della mia vita se troverò un lavoro». Omar, anche lui originario del Gambia, è ancora provato dal viaggio. Resta seduto, tiene gli occhi bassi e si avvolge con una vecchia felpa di pile. Non sa nulla dell’Isis. Sa solo che in Libia lo hanno sbattuto in carcere «senza nessun motivo per due mesi. Ho dovuto chiamare un amico per chiedergli di pagare il riscatto e farmi uscire». Poi hanno deciso di scappare su un barcone. «Qui adesso sono tutti gentili, mi hanno dato cibo e vestiti. Mi piacerebbe restare in Italia».

21 febbraio 2015 (modifica il 23 febbraio 2015)
Fonte: http://corrieredibologna.corriere.it/bologna/notizie/cronaca/2015/21-febbraio-2015/calcio-radio-vita-profughi-fuga-libia-dall-isis-controlli-2301014537449.shtml

Nessun commento:

Posta un commento